Il Covid tra le tante disgrazie che ci ha portato ne conta almeno due che sono riconducibili al tema della comunicazione: il moltiplicarsi di scienziati che si confrontano al di fuori dei consueti canali di comunicazione scientifica determinando sconcerto tra cittadini spaventati e disorientati; il moltiplicarsi dei “giornalisti intervistati da giornalisti” che ci propinano le loro opinioni sul virus, sull’economia, sulla giustizia, sulle decisioni politiche molto spesso senza avere competenze adeguate. Per quanto riguarda il secondo fenomeno, qualcuno ha sostenuto che ormai siamo in presenza di una vera e propria patologia.

Molti dei cosiddetti autorevoli giornalisti si sono trasformati in opinionisti, hanno sostituito la funzione di informare con la formulazione di opinioni, idee e giudizi politicamente orientati o meno. Non incalzano i politici con le loro interviste, non danno informazioni sui fatti, non presentano la realtà nelle sue sfaccettature e dai diversi punti di vista. Senza alcun ritegno esprimono giudizi e critiche, tentano di orientare su qualsiasi tema: il virus, la ripartenza, l’economia, l’assetto istituzionale, le riforme. Passano da un argomento all’altro come se nulla fosse. In questa pandemia i consigli di costoro a sanitari, statistici, medici e politici si sono moltiplicati con la premessa “Forse si sarebbe potuto…”: chiacchiere da bar e logica da social network nei post e nei commenti.

A chi è anziano torna alla mente la linearità di trasmissioni come Tribuna politica nella quale i giornalisti ponevano domanda ai politici e in cui il confronto aiutava il pubblico a capire. Non che i giornalisti di allora non fossero orientati (la presunta neutralità della stampa in Italia, dove non esistono editori puri è una illusione), ma il loro mestiere non era dire ciò che pensavano, ma di “stanare” l’interlocutore e metterlo in difficoltà.

L’ignobile crescita del numero di talk show televisivi, peraltro con un pubblico assai ridotto (intorno al 4%, circa 1,3 milioni di spettatori, con l’unica eccezione di Di Martedì. 6,5% e 1,75 milioni di spettatori),  rappresenta in effetti una anomalia del giornalismo italiano. Ogni notizia viene commentata in modo perfino sfacciato dal giornalista di turno che si comporta come un leader politico o peggio un esperto. Del resto molti di costoro alla fine si propongono come candidati in questo o quel partito.

Un caso esemplare è quello di Massimo Giletti che conduce una trasmissione populista, fintamente di inchiesta, scandalistica e, per non farsi mancar nulla, anche urlata. Più posata, sempre su La7, la trasmissione della Gruber  si caratterizza per la costante fastidiosissima e ripetitiva presenza di alcuni suoi colleghi giornalisti chiamati non per intervistare, che dovrebbe essere il loro ruolo, ma per esprimere le proprie idee con la pretesa di ritenerle giuste. E così vediamo transitare Massimo Cacciari, Beppe Severgnini, Alessandro Sallusti, Massimo Giannini, Andrea Scanzi, Marco Travaglio, Antonio Padellaro, Massimo Franco, Paolo Mieli, Alessandro De Angelis oltre a pochissime donne tra cui spicca Marianna Aprile, persone stimabilissime che però sembrano politici più che i gornalisti. Otto e mezzo è un esempio straordinario di giornalista che intervista giornalisti. E su questo piano la competizione è straordinaria, a cominciare dalle trasmissioni sulle reti Mediaset dove i salotti televisivi si moltiplicano con diversi format, accomunati spesso dalla partigianeria sfacciata dei conduttori. Del Debbio, Giordano, Zurlo conducono le loro trasmissioni più ufficio stampa della destra che da giornalisti indipendenti. Lo si vede dagli ospiti e dagli urli che propagano populismo sguaiato.

Il campione di questo mondo è Bruno Vespa, una sorta di prezzemolo del giornalismo italiano, ormai dappertutto e in tutte le salse a realizzare modellini e a raccontarci come la pensa, arrivando a scrivere libri sulla storia del fascismo che farebbero ridere un liceale. E poi c’è Mentana che non solo ci racconta come la pensa su tutto ma che non si trattiene davanti a qualsiasi critica alle sue considerazioni come dimostrano gli insulti con cui un arrogante  direttore maratoneta copre di sfottò chi si permette di criticarlo. Le sue maratone elettorali costruite sul nulla (le proiezioni) sono un esempio clamoroso di come giornalisti-opinionisti non informano, ma ci raccontano cosa pensano loro, spesso senza avere basi reali di conoscenza e, come spesso accade, a dire tutto e il contrario di tutto nell’arco di poche ore.

In conclusione il linguaggio dei giornalisti-opinionisti sembra sempre più simile al linguaggio del post sul social seguito da commenti, risposte, insulti e sproloqui. Ne paghiamo tutti le conseguenze perché si tratta di una informazione che genera qualunquismo, incertezza e paura.

Vorrei però spendere una parola per quei giornalisti che lavorano con serietà, che ci informano, che fanno il loro lavoro senza che questo venga riconosciuto dai direttori e che, dato che non urlano ma narrano, passano nel disinteresse generale. Sono tanti e molto bravi e bisognerebbe elencarli per rendergli merito. Ma non si può fare: verrebbero epurati.