Se ci si domanda in quale direzione vadano le misure fin qui adottate per fronteggiare la pandemia, escludendo quelle di natura sanitaria, non si può fare a meno di constatare che esse sembrano avere un solo obiettivo: riprendere la strada bruscamente interrotta dal virus. Imprese e lavoratori sono parzialmente compensati del reddito venuto meno e invitati a riprendere con gradualità e con nuovi vincoli, quelli imposti dal rischio sanitario, le attività interrotte. Le erogazioni sono subordinate soltanto alla sussistenza di parametri preesistenti. Non si richiedono né si suggeriscono innovazioni di alcun tipo. Dunque, almeno per adesso, si immagina che l’economia possa rimettersi in moto dal punto in cui era, partendo lentamente ma trovando abbastanza presto il ritmo che le era proprio.

Questa è l’unica lettura possibile, perché altro non c’è. Chi protesta lo fa lamentando i ritardi nel trasferimento dei sussidi promessi o la loro insufficienza, ma per il momento nessuno mette in discussione la direzione intrapresa. Per quanto tempo ancora possiamo rinviare la domanda: ma dove stiamo andando?

Probabilmente in questo arco temporale non si poteva fare diversamente, anche se si poteva e doveva fare meglio. Il principio “primum vivere” in situazioni simili è inoppugnabile. Ma se il fine è quello di ripartire da dove eravamo per tornare quelli di prima, siamo fuori strada. Il sistema già prima della pandemia era in una crisi drammatica, sia per gli allarmanti tassi di crescita, ma soprattutto per la presenza di veri e propri tumori destinati a corroderlo, dalla crisi ambientale a quella sociale, con le sue diseguaglianze intollerabili, da quella fiscale, con livelli folli di evasione, a quella della criminalità organizzata. Era un sistema senza futuro come testimoniato, fra i tanti esempi possibili, dalla fuga dei giovani laureati.

Ma se anche prescindiamo da questi aspetti e ragioniamo con dati puramente quantitativi, lo scenario che ci si prospetta non ha niente a che fare con quello ex ante. I mercati internazionali subiranno una contrazione di proporzioni enormi e la concorrenza sarà spietata. Non c’è solo il turismo nell’occhio del ciclone, e sappiamo quanto questo conti per il nostro Paese. Sono alle porte ridimensionamenti consistenti di quasi tutte le attività economiche, la chiusura di una miriade di esercizi commerciali e di piccole imprese in ogni settore, processi di concentrazione con pesantissime riduzioni degli organici, un ulteriore sacrificio  dell’ambiente e dei diritti del lavoro sull’altare della sopravvivenza delle produzioni, la presa di possesso del territorio da parte di organizzazioni malavitose. Una massa imponente di disoccupati nel lavoro dipendente e nel lavoro autonomo sarà sospinta ai margini della società accanto e persino oltre i milioni di precari, terreno fertile dove far proliferare pulsioni ribellistiche e spinte verso soluzioni istituzionali radicalmente antidemocratiche. Tutto ciò anche tenendo fuori quadro il contesto internazionale e il problema del debito che pende sulla nostra testa. 

Chi non accetta che questo sia il corso degli eventi ha il compito di dire adesso cosa occorre fare perché di tempo ne resta pochissimo. Insistere con sgravi fiscali e sostegni al reddito protraendoli nel tempo (ma fino a quando sarebbe possibile?) alleggerirebbe marginalmente questo scenario, ma non ne modificherebbe la sostanza.

Un nuovo “che fare” ha nemici formidabili, alcuni, come la Confindustria, apertamente dichiarati, altri, ancora più potenti, come la grande finanza e una parte cospicua della burocrazia pubblica, che non fanno proclami ma dispongono di un silenzioso e micidiale potere di interdizione. Un punto è perciò preliminare: non si intraprende un’altra strada se non col consenso maggioritario del Paese. Per conquistarlo serve una proposta che dica con limpidezza in quale direzione si vuole andare e che sia tanto convincente da mobilitare le forze che la facciano divenire maggioritaria. Partecipazione e mobilitazione sono le condizioni sine qua non. E la capacità di persuasione e di conquista deve scaturire da una rappresentazione della realtà che poggi su elementi di chiara evidenza, senza il ricorso a premesse di valore puramente ideologiche che sposterebbero il confronto lontano dal merito delle scelte da compiere.
Non serve, allora, una sfida preliminare per dirimere l’eterno conflitto fra Stato e mercato. Di fronte a una disoccupazione di vastissime proporzioni e difficilmente governabile, come quella che si prospetta, e nell’impossibilità del mercato di riassorbirla, impossibilità ampiamente dimostrata nel passato e ancor più certa nel prossimo futuro, è naturale e non contestabile che tocca allo Stato promuovere sia direttamente che indirettamente attività che creino una grande quantità di nuovi posti di lavoro.

Dove creare nuovo lavoro in misura massiccia? Ovviamente nei settori che hanno manifestato le  maggiori criticità tanto più, com’è il caso italiano, quando sono anche quelli determinanti per affrontare adeguatamente le sfide del futuro, settori nei quali nuova occupazione e qualità strutturale dello sviluppo siano coessenziali. E’ facile individuare nell’ambiente, nel territorio, nella formazione, nel welfare e nell’innovazione le indiscutibili priorità.

In alcune di queste aree, formazione e welfare, la mano pubblica ha oggi, oltre la titolarità politica, la gestione diretta. La loro crescita è perciò immediatamente possibile recependo una offerta di lavoro già presente e bisognosa, al più, di una puntuale finalizzazione. Ciò non significa limitarsi a coprire i vuoti. L’innesto di molte decine di migliaia di lavoratori ad alta qualificazione è la grande occasione per una loro profonda riforma .

Per l’ambiente e il territorio i bisogni del Paese e le potenzialità occupazionali sono enormi. Qui si tratta di spostare l’ottica dalle grandi opere faraoniche alla infinità di interventi di salvaguardia, manutenzione e ristrutturazione per i quali saranno necessari processi formativi di riconversione professionale dei disoccupati da impiegare nelle nuove attività. Inutile sottolineare quanto sia decisivo in questo campo il rispetto assoluto delle norme antimafia sugli appalti.

Sull’innovazione e, più in generale, sul sostegno alle imprese il salto da compiere riguarda l’abbandono definitivo dei finanziamenti pubblici a pioggia riservandoli esclusivamente a chi presenta progetti verificabili di innovazione di valorizzazione professionale dei lavoratori.

Tutto questo non risolverebbe per intero le distorsioni del nostro sistema economico, basti pensare alla questione fiscale, alle politiche industriali, alla funzionalità della pubblica amministrazione, o al tema della criminalità organizzata. Ma si tratterebbe di scelte capaci di aprire processi politici e sociali di grande prospettiva.

L’annuncio e la concreta messa in opera di nuove linee di sviluppo non può tardare oltre. Ogni giorno che passa cresce il malessere e si radica sempre più l’idea che lo Stato ha solo il dovere di aiutare erogando soldi, oggi e domani, fino a quando i cittadini lo chiederanno. E se non li dà, non serve. E se non lo fa, per prima cosa è bene cambiare governo.

Se le risorse disponibili non prendono al più presto la giusta direzione, avremo da rimpiangere molto di più di un’occasione perduta.