Non si è mai parlato tanto di scuola come in questo periodo. Il lockdown ha visto la chiusura della scuola, l’invenzione della Didattica a Distanza in ogni ordine e grado, la discussione sulla chiusura dell’anno scolastico e sugli esami di maturità. Ultimo il tema della riapertura con al centro la questione del distanziamento, delle classi pollaio, del valore della scuola in presenza, della carenza di personale. Ma avevamo bisogno del Coronavirus con i 35 mila morti, con i drammi sociali ed economici per riportare la scuola al centro, per scoprire problemi che sono lì da tempo immemorabile? Sono decenni che la Scuola, insieme alla Sanità, è oggetto i tagli in nome del contenimento delle spese. Le classi pollaio sono quelle volute dalla Gelmini che invitava a formare classi i 26 ragazzi e oltre; il taglio dei docenti parte nel 2008 e l’autonomia scolastica con la creazione degli istituti onnicomprensivi e il loro accorpamento hanno dato il colpo di grazia.

In questo quadro la lettura di La scuola senza andare a scuola: diario di un maestro a distanza di Giuseppe Caliceti (ed. Manni, 2020), riporta l’attenzione sui temi centrali della scuola, sugli “aspetti più regressivi del processo educativo: i compiti, la lezione frontale, l’interrogazione a tu per tu studente-professore, l’idea che gli studenti siano vasi da riempire di contenuti”. La DaD ha mostrato tutte le fragilità della scuola: bambini rimasti fuori dall’aula virtuale per mancanza di strumenti, per difficoltà in famiglia e l’indisponibilità dei genitori. Ma ha anche messo in evidenza che la scuola è il posto migliore per i bambini. Caliceti in questo diario ce lo dimostra facendo parlare i bambini: raccontano i pesci della vasca, gli amici, i maestri e soprattutto immaginano, quella grande capacità che bisogna sviluppare lavorando insieme («Si capisce bene cos’è una scuola quando la viviamo come se fosse il luogo dove si entra competitivi e, dopo aver lavorato e studiato insieme, si esce rispettosi degli altri e tolleranti»).

 

La DaD ha permesso, e Caliceti lo dice espressamente, di rafforzare il rapporto fra maestri e genitori, perché ai genitori si è chiesto di collaborare, di aiutare i propri figli e i maestri in un percorso di comunicazione che spesso manca. E l’appello si fa stringente: “Se non saranno docenti e genitori e immaginarsi la scuola a settembre, io penso che qualcuno la immaginerà per loro: e sarà al ribasso. E la scuola pubblica della Costituzione non riaprirà più”.

 

Eppure, e il maestro lo dice bene, i bambini possono aver imparato molto da questo periodo. Si ricorderanno quanto è mancato loro l’abbraccio dell’amico, le corse nei cortili, gli sguardi rassicuranti e le sgridate del maestro e delle maestre. E si ricorderanno di quanto è importante la scuola, perché la scuola è stare e fare insieme: imparare, conoscere, sperimentare, immaginare. Nel raccontare la storia di Sailor, la bambina che vive nel campo nomadi e sta imparando l’italiano, emergono i temi della uguaglianza, della fragilità, della fratellanza. E l’aiuto di tutti i bambini e della famiglia alla piccola Sailor alla quale hanno rubato lo zainetto, sono lì a dimostrare insieme alle lettere che i suoi compagni le scrivono, che la solidarietà è la premessa per l’uguaglianza.

 

Al di là delle questioni che Caliceti affronta, i voti, le valutazioni, le risorse umane e materiali, il libro è percorso da un filo rosso: la scuola è il frutto di una passione collettiva di maestri, ragazzi, genitori. La scuola vive non su un lavoro routinario ma sulla capacità di immaginare e insegnare a immaginare. La scuola è il miglior tempo di vita dei bambini e dei ragazzi e il maestro (come è più bello questa parola rispetto a insegnante) è il protagonista di qualcosa di straordinario. Per questo le risorse per gli insegnanti devono essere maggiori a cominciare dalla scuola 0-10 anni. Perché, come scrive Caliceti, “Solo da una scuola più giusta, più sicura e più bella può nascere una società migliore anch’essa più giusta, più sicura e più bella. Tutti insieme”.