La lettera della dirigente e degli insegnanti del liceo Castelnuovo merita la massima considerazione. La scuola è, o meglio dovrebbe essere, quello che loro indicano: un luogo di formazione, educazione, socialità tra i più importanti della nostra società. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza” scriveva Gramsci sull’Ordine Nuovo nel 1919 rivolgendosi ai lavoratori; e Brecht, rivolgendosi ai diseredati scriveva un’ode dell’imparare che dovremmo ricordarci ogni volta che parliamo di formazione ed educazione: “Impara quel che è più semplice! Per quelli/ il cui tempo è venuto/ non è mai troppo tardi!/ Impara l’abc; non basta, ma imparalo! E non ti venga a noia! Comincia! devi sapere tutto, tu!”.

Il desiderio di tornare a scuola è positivo e legittimo, ma non basta, perchè la "scuola di prima" non era meravigliosa e tutti se ne lamentavano con giudizi sferzanti sui ragazzi, sulla qualità dei docenti, sugli ambienti scolastici e le attrezzature. Critiche spesso ingiuste e perfino cattive fatte da molti che oggi invitano a tornare a prima. Davvero pensiamo che il male della scuola sia tutto dovuto a quello che accade ora, alla non presenza in classe?

Partiamo da un presupposto: la scuola è una, ma non è uguale per tutti. Quello che la DaD ha messo in risalto sul piano delle disponibilità tecnologica e sulle condizioni abitative delle famiglie esisteva già e non se ne parlava. Abbiamo scoperto il divario tecnologico e che spesso una famiglia di cinque persone vive in tre stanze. Eppure sapevamo che un minore è soggetto a povertà educativa quando il suo diritto ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni e talenti è privato o compromesso. E questo non riguarda solo la scuola e la negazione del diritto allo studio, ma l’insieme delle mancanze di opportunità educative a tutto campo: la fruizione culturale, il diritto al gioco e alle attività sportive. Sono le periferie in senso lato a soffrire di più le disuguaglianza. Quasi 4.200 comuni (ovvero oltre la metà del totale) ricadono nelle aree interne. Stiamo parlando del 60% della superficie nazionale, con circa 13 milioni di persone (22% della popolazione residente al 1° gennaio 2018). La maggior parte degli abitanti delle aree interne (8,8 milioni di persone) vive nei comuni intermedi, distanti dai 20 ai 40 minuti dal polo più vicino. 3,7 milioni abitano in comuni periferici, mentre altre 670 mila persone vivono in aree ultraperiferiche (cioè comuni, perlopiù montani o isolani, distanti almeno 75 minuti dal centro più vicino). Sono le aree dove la scuola non riesce a colmare le differenze educative e formative, nelle quali nonostante l’impegno dei sindaci mancano strutture basilari di fruizione culturale, dove l’abbandono scolastico raggiunge cifre incredibili. Nel 2019 nel nostro paese il 13,5% dei residenti tra 18-24 anni ha lasciato la scuola con la sola licenza media. Una quota che è tra le più alte in Europa, superata solo da Spagna, Malta, Romania e Bulgaria. I neet (neither in employment nor in education or training) sono invece i giovani non occupati e non inseriti in un percorso di istruzione né di formazione. Anche in questo caso si tratta di una condizione più frequente tra i ragazzi e le ragazze che vivono in contesti di disagio. In Italia nel 2019 i neet rappresentano il 23,2% dei residenti tra i 18-24 anni. Un dato preoccupante, considerato che si parla di quasi 1 giovane su 4. La Sicilia ha il 22,4% di abbandoni scolastici e il 38,90% di neet (dati 2019). A puro titolo indicativo in Toscana i comuni di Aulla (17,4%), Comano (19,1%), Villafranca in Lunigiana (19,3%) in Provincia di Massa Carrara e i comuni di Gambassi Terme (19%), San Godenzo (19,3%), Campi Bisenzio (19,5%), Castelfiorentino (20,8%), Fucecchio (23,6%) in provincia di Firenze hanno dati di abbandono scolastico particolarmente elevati, con una media regionale del 18,24% di abbandoni e il 14,16% di neet.

La povertà educativa, quella che si descrive come minaccia nella lettera dei docenti del Castelnuovo, non è di ora, al tempo del Covid, e non è uguale per tutti: non è uguale per ragione geografiche, tecnologiche e sociali. L’abbandono scolastico e la povertà educativa nelle periferie urbane sono molto diversi da quelle dei quartieri residenziali e sono diversi perché le condizioni sociali, culturali ed economiche delle famiglie non sono le stesse: “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali” diceva Don Milani. Non solo, ma grazie a stupide riforme fatte in nome della necessità di rapportarsi con il mercato, vediamo le conseguenze sulla povertà educativa anche fra i diversi tipi di scuola (licei da una parte, istituti tecnici e professionali dall’altro).

Quando parliamo di scuola dobbiamo considerare tutti questi elementi e prospettare un cambiamento radicale nel modo di intendere la scuola: dagli investimenti in formazione al rinnovamento della didattica che passa da un serio e radicale aggiornamento periodico dei docenti.

Nella lettera dal Castelnuovo sono temi che mancano o appaiono sottotraccia sommersi dal desiderio di “tornare a scuola”. Ma davvero questo basterebbe, davvero una volta passata la crisi del Covid tutto deve tornare come prima? Non è uguale andare in un liceo a Firenze, magari con 10 minuti di bus o a piedi o andare a scuola a chilometri di distanza. Non lo è per i ragazzi, non lo è per gli insegnanti. La scuola non è  un luogo non sfiorato dall’ingiustizia e dalla diseguaglianza e affermare che solo la DaD marca le disuguaglianze è non vedere la realtà, perché la marcano tante altre cose, perfino il modo di lavorare degli insegnanti. Ma tutto questo esisteva già ed esiste ancora e, se non ragioniamo sull’urgenza di rinnovare la scuola e su come farlo rischiamo di perdere una nuova occasione.

Cominciamo da una considerazione: negli ultimi venti anni è stato messo in crisi il ruolo sociale del personale insegnante nelle scuole. Malpagato, con scarsa attenzione alla formazione permanente sui temi della didattica, utilizzato mediante la precarietà quasi come una massa informe, il personale insegnante ha perso progressivamente interesse per il proprio lavoro. Naturalmente non tutto: conosco decine di insegnanti appassionati che danno tutto al proprio lavoro e a volte anche di più. Ma ne conosco tanti che entrano in classe con fastidio e fatica, che misurano le difficoltà non solo con la perdita del proprio ruolo sociale, ma anche con un mondo giovanile sempre più complesso. Un fenomeno che riguarda gli insegnanti più avanti negli anni, ma anche tanti giovani che, dopo la tragica vicenda dei corsi SIS, si sono visti spedire nelle scuole da una università che si preoccupa di formare ricercatori e studiosi, ma molto poco di formare alla pratica educativa, alla didattica e all’insegnamento. Insegnanti schiacciati da pratiche burocratiche che sottraggono tempo prezioso che potrebbe essere impiegato nella propria formazione e nel lavoro con i ragazzi.

Nella lettera ci sono due cose che mi hanno colpito: la prima  la sottovalutazione della pandemia, un comportamento che a me sembra fortemente diseducativo perché contiene un elemento negativo: vedere solo il proprio particolare e non l’insieme, vedere se stessi e le proprie aspettative come unico parametro, mentre invece si dovrebbe vedere l’insieme e cercare soluzioni che non vengono chieste ad altri ma praticate. Del resto quanto succedeva all’uscita delle scuole, con i ragazzi senza mascherina, ammassati e abbracciati, sembrava non interessare i docenti, il cui ruolo si fermava al portone e fuori doveva subentrare la polizia, la protezione civile e chi sa chi altro. Si rimarca la inadeguatezza del trasporto pubblico, che sicuramente esisteva anche prima del Covid per avere negli anni accettato che i servizi venissero tagliati in nome del contenimento della spesa. Nello stesso tempo si accenna alla possibilità di orari differenziati di ingresso e uscita che però, tranne poche esperienze, non sono state messe in pratica in autonomia dalle scuole. In questi giorni si è parlato di riapertura delle scuole con orari differenziati, turni, scuola al sabato e alla domenica, ma l’associazione dei dirigenti scolastici ha dichiarato che è impossibile. Ma se davvero teniamo ai ragazzi e alla scuola, se davvero siamo convinti che “La scuola è meglio della merda” non possiamo per qualche mese, nell’interesse generale della collettività e un interesse specifico dei ragazzi fare uno sforzo aggiuntivo? Certo, chiederlo a insegnanti bistrattati e che già tanti sacrifici hanno fatto e fanno è difficile, ma non impossibile. Ma serve accanto a questo impegno degli insegnanti un ruolo dello Stato non solo dal punto di vista economico (aumento degli stipendi), ma anche e soprattutto su nuove assunzioni, eliminazione del precariato, risorse per la formazione, valorizzazione e condivisione delle migliori pratiche didattiche, insomma investimenti in formazione, personale e attrezzature..

Spesso mi hanno accusato di vedere l’insegnante non come un lavoratore ma come un missionario votato al sacrificio. Me la tengo questa accusa: insegnare non è un lavoro come un altro, non si può fare senza passione e dedizione, non si può insegnare se non si amano i ragazzi, se non si è disposti a capirli e a “perdere tempo” per riuscirci, se non ci si mette in discussione ogni anno, ragionando sui successi e i fallimenti che poi hanno il nome di Andrea, Marina, Claudio, Carlo: quelli che perdiamo e restano indietro, magari senza una nostra specifica responsabilità. Ma quei ragazzi che perdiamo non possiamo far finta di dimenticarli e dobbiamo piuttosto capire le ragioni e domandarci se la Scuola e il sistema educativo nel suo insieme, non il singolo insegnante, ha fatto abbastanza perché questo non succedesse.